DONNE DIFETTOSE

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DONNE DIFETTOSEla rivistaspecial edition - ottobre 2020A cura di Donne DifettoseProgetto grafico di Beatrice Galluzzi2

EDITORIALEStréga s. f. [lat. strǐga, der. (come variante pop.) di strix -igis«civetta», uccello rapace notturno].La strige compare in molti testi della tradizione letteraria latina con lesembianze di demone disturbatore di neonati e avido divoratore di interiora umane, tetra messaggera di morte, ma anche, al contrario,quale notturna nutrice che offre ai bambini il proprio seno generoso.Quest’ultima interpretazione è molto meno diffusa rispetto alla rappresentazione negativa dell’animale: ecco che nasce così il terminestrega, un essere malvagio, in diretta connessione con la dimensionedemoniaca.Per noi Donne Difettose lʼaccezione strega è – ovviamente – un complimento, ecco perché lʼabbiamo scelta per il numero speciale dellarivista di Donne Difettose che sarebbe dovuto uscire durante il MareaNoir festival. Ma questo è un anno demoniaco fino in fondo, il festival è stato rimandato, e abbiamo deciso di pubblicarla in forma ridotta e gratuita in occasione della notte di Halloween (ringraziamo la nostra casa editrice Ouverture Edizioni per questa generosa concessione).I racconti che leggerete in questa special edition escono dal contestche abbiamo lanciato qualche mese fa, e dove chiedevamo una letturadella stregoneria nelle sue forme non solo classiche ma anche allargate agli ambiti quotidiani.3

Nelle prossime pagine troverete “Veleni”, un racconto di Ilaria Petrarca dove ci sono paesi e leggende i cui nomi non possono esserepronunciati; “Con gli occhi degli altri”, di Valentina Menesatti, è invece incentrato sullʼuniverso tagliente di una madre in crisi; Francesca Santi ci fa godere di un horror puro e contemporaneo con il suo“La notte della strega”; Flavia Cidonio si addentra in un territorio fatto di cose non dette con “Una donna senza nome”; e Chiara Lecito cidelizia con un monologo sulla trasgressione celata de “La sigarettadel mattino”.Leggete, leggete, le streghe non sono tornate.In realtà, non sono mai andate via.Buona letturaD.D.4

INDICEVelenidi Ilaria Petrarca6Con gli occhi degli altridi Valentina Menesatti16La notte della stregadi Francesca Santi23Una donna senza nomedi Flavia Cidonio34La bambola madredi Sara Mazzini43La sigaretta del mattinodi Chiara Lecito55Biografie delle autrici595

Veleni6

Velenidi Ilaria PetrarcaIl primo incontro con Nico avvenne nella cornicedi una Matera dʼinizio aprile. Ero lì per pianificare un evento dellʼAgenzia per il quale mi era statoindicato come contatto locale. Avevamo scambia-to delle e-mail e qualche telefonata su argomenti tecnici. Avevo anche curiosato il suo profilo LinkedIn, perciò non fui sorpresa nel trovarmi di fronte a un architetto tarchiato con pochipeli in testa e troppi sul mento. Brusco ma competente, dopoaver fatto il punto sul progetto si era unito a me e Iole perpranzo.Lei, lucana, era stata mia compagna di studi a Roma. Non civedevamo da anni perché dopo la laurea avevamo intrapresopercorsi differenti. Io ero rimasta in città, mi ero sposata edero entrata nellʼAgenzia. Lei, invece, aveva girato mezza Europa da sola ed era tornata in Basilicata per mettere su unacooperativa agricola equosolidale insieme adue cugini paterni. Quando le avevo dettoche sarei andata a Matera per lavoro mi aveva promesso il miglior piatto di strascicati7

della provincia. Come avrei potuto rifiutare?Nico iniziò a fare domande appena ci sedemmo a tavola.«Io sono di Craco, e tu?»Scambiai il suo interesse per cortesia. Mi sembrava che cercasse di spezzare lʼimbarazzo di un pranzo fra due amiche dilunga data e un nuovo conoscente dallʼaspetto burbero. Apprezzavo di cuore la sensibilità che gli attribuivo.«Un paese più a sud», rispose Iole toccandosi i capelli. Aitempi in cui studiavamo insieme li portava lunghi fino a metàschiena. Ricordo i suoi riccioli scuri che strisciavano sulle pagine facendo sibilare i libri di testo con le punte. Adesso li aveva tagliati appena sotto le orecchie e li aveva ravvivati condelle striature color cioccolato che illuminavano il suo voltopallido e dai lineamenti duri.«Quanto più a sud?»«Sotto Tursi»«Valsinni?»Iole fissò il dito di Primitivo sul fondo del bicchiere.«No, è uno di quelli sulla Statale della Valle del Sangro»«Conosco, conosco. Dove, di preciso?»«Sai dove sta Santa Maria della Neve?»8

Lʼarchitetto impallidì.«Chille paìse».Avevo assistito a questo scambio di battute dapprima incuriosita, poi confusa. Nico era stato insistente, ma Iole aveva tergiversato su un argomento banale come il proprio paese dʼorigine. Perché lui non lasciava cadere il discorso? Perché leinon rispondeva?Poggiai le spalle sullo schienale della sedia e aspettai in silenzio.«Credo di aver perso un passaggio» ammisi.Nico intrecciò le dita delle mani e mi raccontò questa storia.Un uomo, cestaio di mestiere, si fermò presso una locanda diquel paese durante una tempesta. Era partito in cercadell’untore che aveva diffuso la peste nel suo villaggio, e prima di riprendere il cammino aveva sentito il bisogno di unpasto caldo e di una notte di riposo.L’oste gli presentò una ragazza, sua ospite dal giorno precedente. Disse che anche lei era in fuga da unʼarea infetta. Ilcestaio, impietosito da una vicenda tanto simile alla sua, leoffrì protezione e il mattino seguente lasciarono la locanda.La ragazza era senza bagaglio e portava al collo un9

vistoso medaglione.Lui le consigliò di nasconderlo, preoccupato che potesse attrarre dei ladri.Lei gli assicurò che finché lo avesse indossato non sarebbepotuto accadere niente di male.Lui domandò se pesasse.Lei rispose che era abituata a portarlo: era tutto ciò che aveva.Lui, incuriosito, chiese cosa contenesse.Lei si fermò e fece scattare la cerniera di metallo. Il cestaiovide nel ciondolo un volto ovale, avvizzito. Gli occhi piccoli ecattivi erano di unʼanziana. Chi era? Sua nonna o sua madre? Sono io rivelò lei, mentre lʼimmagine nella cornicettatrasfigurava. La pelle si tendeva verso le tempie e la bocca sirimpolpava nel broncio di una ragazza. Subito dopo mutavain lineamenti marcati, sopracciglia spesse e una mascellamascolina: era ora un giovane uomo. Le sorrise con losguardo vivo, acceso. Le labbra scavarono due rughe profonde ai lati della bocca, là dove le guance si andavano ricoprendo di peli a fior di pelle, pronti a spuntare come spine intorno al ghigno di un vecchio che il cestaio riconobbe esserel’untore.10

Accecato dalla rabbia, la accusò di essere una masciara etentò di strapparle il medaglione. La catenella gli si avvolseintorno alle dita, strisciò sul polso e lacerò la pelle fino algomito, iniettando una specie di veleno.Esistono diverse versioni di ciò che accadde dopo.Secondo alcuni il cestaio morì lungo la strada fra atroci sofferenze.Secondo altri sopravvisse fino alla vecchiaia, ma passò igiorni a evitare lʼira delle masciare.Secondo coloro che scrissero la Storia divenne pazzo e causòle misteriose sventure che per secoli sconvolsero quel paese.«Cosʼè una masciara?»«Una strega» spiegò Nico rabboccandomi il bicchiere.«Quindi il suo paese è un luogo dove sono ambientate leggende di streghe?»Annuì passando al calice di Iole. Lei schermò la coppa con lamano e lui si ritrasse.Io ero ancora più confusa.«Quindi? Cosa cʼè di sconvolgente?»Iole scosse la testa.«Non puoi capire, non sei di qui».Aveva marcato la pronuncia meridionale come le ave11

vo sentito fare a volte al telefono con sua madre.«Sì, ma ho visitato Triora, Riofreddo »Nico mi interruppe.«Quel paese è unʼaltra cosa»«Come si chiama?»La mia domanda fece irrigidire entrambi.«Non si può nominare» sussurrò Iole sistemandosi come fosse seduta su un rovo di more.«Porta male» aggiunse lui.«Mi state prendendo in giro? Siamo nel ventunesimo secolo,a Matera. È la città europea della Cultura, mica della superstizione!»Vidi Iole sorridere sotto i baffi. Nico no, lui sciolse le maniguardandomi come fossi una sciagurata. Era chiaro che da luinon avrei cavato nullʼaltro che quella leggenda.Avvicinai allora la testa verso la mia amica.«Dai, dimmelo tu in un orecchio».Lui le lanciò unʼocchiata carica di significato che lei sostennesenza dire una parola. Sembravano capirsi mentre io non cicapivo niente.Iole si accostò a me e si tese allungando il collo, come a rivelarmi chissà quale segreto. Appena schiuse le labbra e un accenno di respiro mi soffiò sul lobo, lui la afferrò per un braccio e la scrollò con vigore.«Ma che modi!» saltai su in sua difesa, ma mi accorsi benpresto che quello fuori controllo non era lui.Iole gli prese la mano, tozza e pelosa come quella di12

un uomo preistorico. La tenne avvolta nella sua destra, ditanelle dita, e la portò al taschino della camicia dellʼarchitettoper prendere la biro che vi teneva. Lui oppose resistenza in unbraccio di ferro al contrario che durò pochi secondi e vinselei: gli fece impugnare la penna restando a guida dei movimenti con la sua stessa mano, e tra scatti e contrazioni gli impose di scrivere sulla tovaglietta di carta dellʼosteria.«Leggi».Nico lanciò un urlo cavernoso, i nostri vicini di tavolo si girarono dallo spavento.Iole insistette.«Leggi!»Lʼinchiostro aveva formato dei disegni, nove lettere dellʼalfabeto raggruppate in quattro sillabe: il nome di quel paese.Un cameriere anziano accorse verso il nostro tavolo chiedendo cosa stesse succedendo. Dʼistinto mi alzai, a scusarmi conlui e tutti i presenti. Ero mortificata dal comportamento deimiei compagni e avevo il cuore che mi usciva dal petto tantomi sentivo turbata.Iole si liberò di Nico come scacciando una zanzara, poi si avventò sulla mia borsa e corse via. Ma dove andava con il mioportafogli, le chiavi di casa, la chiavi della macchina? La inseguii superando il cameriere e scontrandomi con un altro,che per un pelo non fece franare un vassoio di fritti.Nel parcheggio riconobbi il motore acceso della mia auto, Iole al posto di guida faceva cenno di sbrigarmi. Montaisu senza pensarci e prima che potessi chiudere la por13

tiera il suo piede già aveva lasciato la frizione.Risalimmo la via Appia mentre la radio annunciava che unterremoto devastante aveva colpito la Basilicata, e che lʼepicentro era stato individuato pochi chilometri sotto la cittadinadi Craco.Non parlammo per ore. Io stringevo la borsa al petto, lei teneva gli occhi fissi allʼorizzonte. Radio Radiosa diventava Radio Stella Salerno prima, Radio Monte Carlo poi e Virgin Radio infine.Smontò alla stazione Tiburtina e mi ringraziò con un filo divoce. Sparì lasciando le chiavi nel quadro della macchina.Lʼultimo incontro con Nico avvenne per caso su una terrazzamilanese una sera di luglio. Il mio spritz era già a metà, lui era al secondo.«Mi dispiace che abbiano sospeso il progetto»«Anche a me»«Adesso di cosa ti occupi?»Gli raccontai a grandi linee cosa stavo facendo, evitando diguardarlo negli occhi perché non ci eravamo più parlati daquella volta a Matera e ne ero ancora turbata.Portava una camicia con le maniche arrotolate che lasciavanogli avambracci scoperti. Dei segni rossi spuntavano dal cotone. Cosʼerano? Bruciature, abrasioni, graffi?Si accorse del mio interesse, posò il calice sul davanzale e mimostrò il braccio destro per intero. La pelle era deturpata da decine di cicatrici, spesse e in rilievo, simili a14

un groviglio di serpenti attorcigliati.«Vuoi sapere come me le sono fatte?»Credevo di conoscere la risposta, dunque non domandai spiegazioni.Se fosse diventato anche pazzo lo scoprii subito dopo.15

Con gli occhi degli altri16

Con gli occhi degli altridi Valentina MenesattiSe veduto avesse uomo farsi lieto,visto m’avresti di livore sparso.(Dante Alighieri, Purgatorio, XIV)Sono le tre. Dovrebbe essere martedì, ma non ci giureresti.Squilla il telefono di casa, lo cerchi e lo trovi nascosto sottoun cuscino del divano.Pronto.È il comitato.Sai che vi riunirete alle sei?Sì, sul serio, non mancherai questa volta.Sì, una vergogna.L’arteria verde della zona. Il Municipio. Le risposte insoddisfacenti. I pini secolari. Protestare.Cortecce marce, spezzate come le ultime parole che pronunciper salutare.Hai sonno, riagganci e la osservi nella sua culla bianco panna.Forse non le importerà mai degli alberi di viale Trieste. Hatutta la vita davanti, può essere ciò che vuole e avrà molte piùopportunità di quante ne hai avute tu. Quandoavrà la tua età probabilmente non ci saranno neanche più, quei pini. Forse non vivrà neanchenei paraggi di questa macchia verde o magari cipasseggerà noncurante, in barba alle protestevivaci delle ultime settimane.Le altri madri hanno paura. A spasso con i passeggini temono che cada un altro grosso ramo,17

com’è accaduto accanto all’ingresso principale della scuolasuperiore, qualche mese fa.Tu invece non hai paura. Procedi tranquilla e quando ti sfiorail pensiero di uno schianto improvviso, ti sembra immediatamente eccitante l’idea che ti capiti qualcosa. E non perché aspiri a morire. Tutt’altro, fantastichi di esser viva infatti, maper un pelo. Ti immagini in un letto d’ospedale con la flebo albraccio e gli occhi chiusi, di poco fuori pericolo. Salva e circondata dalle persone che ami, al centro della stanza, al centro della scena, finalmente.Perché da quando è nata lei tu sei invisibile. Lo sei dal giornoin cui l’hai messa al mondo.Ti aggiri per casa come un fantasma con le guance lattescentie le risposte secche, troncate con l’accetta e talvolta gridate,pur di farti sentire, e inutilmente, considerato che sei trasparente anche per i tuoi genitori: non hanno occhi che per lei.E così lui: non ti vede, diafana moglie. Va avanti a passo svelto, fa carriera e ti lascia indietro.Ti ha ingravidata, adesso può tornare a caccia e al ritorno,nella vostra capanna, la sera, gli capita di portare in trofeo lepelli ancora calde di racconti stimolanti, provviste di successilavorativi e obiettivi che ha conquistato. Tu gli sorridi masenti la rabbia e l’infelicità crescerti dentro, gonfia e dolorosacome una montata velenifera che inquina la linfa e induriscele membra. Le ossa si asciugano e scricchiolano dall’interno,cederanno, facili prede del primo vento, basta guardarti infaccia per capire che non sei salda. Eppure mascheri comepuoi, tanto ci sono cose che gli vanno storte e anche di quelleti rende partecipe. In quei casi lo consoli, gli dici di non abbattersi, intraprendi discorsi motivazionali con il tono fermo etuttavia mai privo di affetto di chi ascolta lo sfogo mapoi pretende l’azione, la stessa che non riesci a compiere tu. Gioisci perché sei stata utile, ma in verità so18

prattutto perché ti fa piacere vederlo subire, per una volta. Laprossima potrebbe rientrare in casa, sfilarsi il cappotto e dirtidi nuovo che ha un’ottima notizia. Intenta a sterilizzare ilciuccio, eccoti sollevare appena il viso e dire: ti ascolto, senzariuscire a guardarlo negli occhi.«È davvero una bella soddisfazione», fai. Lo abbracci, manifesti contentezza e scodinzoleresti se potessi, per esclamarefedeltà e amore. Ma proprio mentre lo stringi, vi osservi entrambi nel vetro della finestra del soggiorno e ti accorgi che ladonna lì riflessa non ha occhi, soltanto palpebre cucite col fildi ferro in punti abbastanza fitti da render ciechi, ma distantisufficientemente per consentire alle lacrime di colare giù.Perché non è un abbraccio, ma un mantello pesante e ruvidoche la trattiene, come l’ombra d’un purgatorio di pietra livida.Non strapperesti al tuo compagno quel successo, perché tu loami; né chiederesti d’averlo per te, perché sarebbe sleale riscuoterlo senza essertelo guadagnato.Ciò che vuoi è che quel premio non esista al mondo. Ma siccome sai che al mondo, ci saranno sempre altri premi e altresoddisfazioni che le persone otterranno, allora vuoi che sianole persone a smettere di esistere.Chiedi il deserto, e lo ottieni, polverizzando ogni desiderio,inclusi i tuoi.Lui. Un altro capitolo della stessa trama il cui senso sfuggirebbe ai tuoi critici, di mestiere o d’occasione, perché tu stessa non sapresti dare un titolo a tutta questa storia, al sentimento inedito che ti domina e rade al suolo tutto ciò che cresce.«Si possono trapiantare e spostare nella Villa».«Tutti gli esemplari?»«No, soltanto quelli in salute. Gli altri devono comunque essere abbattuti».19

Ascolti le altre donne del comitato ragionare sul da farsi.«Ma che sradicare e sradicare! Sono pini secolari. Devono essere curati e potati se rischiano di cadere. Vorrei ben vederevoi: rompervi una gamba e sentirvi dire che ve la amputeranno». Qualcuno alza la voce, scompiglia per un istantel’assembramento numeroso ma pacifico radunato in protesta.Con un braccio spingi il passeggino avanti e indietro, e mentre annuisci dietro gli occhiali spessi e scuri, urti per sbaglioun’anziana che cerca di farsi largo nel vostro gomitolo di corpi. Ti affretti a chiederle scusa. Lei sorride con dolcezza increspando ogni ruga del viso, fino a quelle intorno agli occhichiari, che lascia scivolare su tua figlia.«Che bella bambina», dice.Sei stanca, ringrazi con un filo di voce. L’anziana proseguesenza badarti, attraversa, si fa piccola insieme al viale che lainghiotte nel suo punto di fuga.«Masha Allah», senti dire alle tue spalle. Quando ti volti, vediuna donna con un fazzoletto sulla testa.«Come?», le domandi.La donna fa un passo avanti e ti si mette quasi accanto.«Dove sono nata io, quando viene fatto un complimento a unbambino, si risponde subito Masha Allah, cioè: volontà di Allah».Indica il cielo, tu scuoti la testa perché credi di non aver afferrato il concetto e lei si morde le labbra come se potesseschiacciarne fuori una spiegazione. “Ain al hasoud”.Aggrotti le ciglia. «Evil eye?» riprova. «Come si dice qui ilmalocchio? Masha Allah è la nostra formula contro l’occhiodell’invidia».«L’occhio del diavolo», ridacchia qualcuno lì di fianco. Ricevi una pacca bonaria sulla spalla che ti fa perdere leggermente l’equilibrio.20

«Non lo sai?». È una tua vicina di casa, anche lei nel comitatodi quartiere.«Tiene l’uocchie sicche, diciamo, da dove vengo io», alza lavoce sguaiata.«L’invidioso ha gli occhi che seccano, portano sventura. Inteso?»Parla proprio con te e per educazione sollevi le lenti nere sopra la testa. Il sole filtra oltre gli aghi sottili dei pini e ti acceca. Qualcosa ti dice che se continui a fissare i rami cadrannocome frutti maturi, anzi forse è colpa tua se gli alberi sono venuti giù, sei tu che hai gli occhi pieni di invidia e bruci le cosevive, inaridisci la tua stessa anima dal rizoma alla cima.Riabbassi gli occhiali da sole perché ti vuoi schermare. Sentila vergogna e ti volti, ti allontani fra la gente, verso casa,spingendo la carrozzina in salita, fra le mille radici nodose deipini che cercano di farti inciampare, perché persino quei tronchi muti sanno che razza di persona sei.Mormorano le altre donne del comitato, e nella confusione tisembra domandino l’una all’altra, bisbigliando, se si può essere invidiose dell’uomo con cui si ha avuto una figlia. Sibilano le serpi, se si può mai essere invidiose della propria figliastessa. Le voci, come un ronzio, si innalzano in sciami trascinate dal vento, mulinandoti intorno. Tu aumenti il passo. Ilcomitato ti chiama, ti chiede in coro di tornare con i piedi perterra, di fare la madre e di scendere alle sei anche domani perla protesta, per amare ciò che deve essere amato: tuo marito,tua figlia e l’ambiente. Alzi gli occhi e mille piccole orbitebianche ti fissano da dietro le vetrine dei bar, bisbigliano. Acceleri, ma le loro pupille molli non ti si staccano di dosso.Dove vuoi scappare, se quel male ce l’hai dentro? Cattiva,sussurrano. Osservi le tue dita stringere i manubri pernon perdere la presa. Se fossi davvero una cattiva madre lasceresti andare la carrozzina adesso, in mezzo21

alla strada, fra le auto in corsa. E non fai in tempo a finire dipensarlo che si spalancano gli occhi intorno a te, inorriditi, siallargano a finestre, si dilatano, grossi come intere palazzine.Corri e continui a spingere

Leggete, leggete, le streghe non sono tornate. In realtà, non sono mai andate via. Buona lettura D.D. 5 INDICE Veleni 6 di Ilaria Petrarca Con gli occhi degli altri 16 di Valentina Mene

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