3 Novembre 1943: Nel Settantacinquesimo Anniversario

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3 novembre 1943: nel settantacinquesimo anniversario.Nella storia recente resta viva e drammatica la deportazione degli ebrei il 3 novembre del 1943verso i campi di concentramento dei nazisti.Un’operazione che vide collaborare anche molti italiani nei rastrellamenti e nelle delazioni.Molti altri italiani, invece, a rischio della loro stessa vita, si adoperarono per salvarli, nascondendolinelle case e nelle chiese.La sinagoga di Genova, costruita nel 1935 su progetto dell’architetto Francesco Morandi si trovaoggi in via Bertora a due passi da via Assarotti.Fu lì che i tedeschi nel 43’ fecero convocare una riunione di tutti gli ebrei per prenderli in un colposolo. Il rabbino Riccardo Pacifici e i suoi figli di 2 e 4 anni insieme ad altri 50 che erano cascati neltranello furono inviati ad Auschwitz dove morirono.https://it.wikipedia.org/wiki/Una giovent%C3%B9 offesa. Ebrei genovesi ricordanoUna gioventù offesa. Ebrei genovesi ricordano è un libro di memorie di autori vari curato daChiara Bricarelli e pubblicato nel 1995 da Editrice La Giuntina, Firenze, in occasione delcinquantennale della fine della seconda guerra mondiale e in ricordo dell'Olocausto.In cui ci sono le testimonianze precedute da un ricordo degli eventi dei primi di novembre 1943 diPietro Dello Strologo, presidente della Comunità Ebraica di Genova.La prefazione di Pietro Dello Strologo“Il pomeriggio del 2 novembre, gli uffici della Comunità siti in Passo Bertora (ex Passo Assarotti)sono aperti ed i bambini del custode Bino Polacco stanno giocando davanti al tempio”.Così inizia il testo dell’avvocato Salvatore Jona scritto per “Genova”, rivista del Comune di Genovanel numero speciale uscito in occasione del ventesimo anniversario della Liberazione.Questo brano e quello che ad esso segue sono l’unica testimonianza scritta della retata effettuata daitedeschi nella Sinagoga di Genova e sono diventati, nel tempo, la sola traccia ala quale hannoattinto tutti colore che hanno voluto ricordare la persecuzione degli ebrei genovesi.“Alle ore 17 giungono le SS e, sotto la minaccia di uccidere i bambini, costringono il custode arilevare dove sono nascosti i registri della Comunità (contenti i registri degli Ebrei genovesi),trasferiti da circa un mese nelle cantine del palazzo vicino. I tedeschi li rintracciano e obbligano ilPolacco a telefonare agli iscritti, fissando loro un appuntamento per l’indomani mattina”.La mattina del 3 novembre le SS, che nella notte aveva preso posizione nella zona ed avevanooccupato la Sinagoga, attendono colore che, ignari, arrivano per rispondere alla chiamata. Ed eccoche i primi salgono lentamente lungo la stretta salita che hanno percorso tante volte daquell’indimenticabile 3 giugno 1935, giorno in cui è stato inaugurato il nuovo Tempio di Genovaalla presenza delle autorità cittadine e delle massime autorità dell’Ebraismo italiano.Chissà se ricordano, mentre compiono quel breve tratto di strada, le parole pronunciate del RabbinoDario Disegni al momento dell’inaugurazione: “Qui vi recherete nelle ore di introspezione, neimomenti di silenzio interiore in cui ognuno di voi prova nostalgiadell’infinito e dell’eterno.qui verrete, devotamente, ad espandere affetti, gioie, dolori, effusioni digiubilo a ritrovare calma e rassegnazione ai voleri della Divinità, durante le prove dolorose dellavita. Qui vi ritroverete ”Chissà se ricordano anche quelle dell’oratore ufficiale di quel giorno, l’Avv. Lelio Vittorio Valobra:“L’orgoglio di poter innalzare un Tempio.è in noi alimentato dal clima politico nel quale viviamoche, primo interprete ed esaltatore del sacrificio, ha restituito agli italiani quella fierezza di se stessie quell’ordine interno che sono indispensabili al divenire di una nazione”.Chissà se ripensano a quei pochi anni trascorsi da allora, pochi anni sereni: le leggi razziali, laguerra dichiarata e combattuta con l’alleato tedesco, i bombardamenti, il 25 luglio e l’8 settembre,l’arrivo delle truppe tedesche e la Repubblica di Salò, ma soprattutto il vuoto intorno e la mancanzadi punti di riferimento, la fiducia che “tanto in Italia queste cose non succedono”, la speranza nellafede che aiuta ad affrontare l’isolamento e la paura.

Chissà se ricordano l’ultimo discorso tenuto dal rabbino Pacifici in occasione di Rosh Ha-Shanà (ilcapodanno ebraico) alcuni mesi prima: “Mai, forse, in nessun Rosh Ha-Shanà il nostro Tempio èstato così deserto e abbandonato e non visto, come di consueto, l’afflusso dei fratelli alla Casa delSignore; per contro, mai come in questo Rosh Ha-Shanà, noi vi siamo entrati con l’animo cosìappassionato e fervente di ardore religioso, col desiderio intenso di trovarci vicino a Dio e di trovarein lui pace e conforto.Perché è certamente vero che questo resterà forse il più grave, il più tristeRosh Ha-Shanà di questo periodo di guerra e forse di tutta la nostra vita; ma appunto per ciò noiabbiamo oggi l’occasione di valutare tutta la profondità e la pienezza del sentimento religioso chepervade le tefillod di queste giornate, perché anche per noi è giunta un’ora seria e difficile della vitae di solito mai come nei più tristi frangenti l’animo umano si sente vicino a Dio e anche adincontrarsi con Lui”.Con questi pensieri, con tanti ricordi ma, penso, soprattutto con tanto timore, uno alla volta, glisventurati che hanno risposto alla chiamata entrano nella Sinagoga dove sperano di averefinalmente le risposte alle tante domande che sentono urgere dentro di loro. Qui li attendono con learmi in pugno le SS e li radunano nella vasta aula man mano che arrivano. Ad un certo momentouna signora, che abita nella piccola casa rossa all’inizio della salita, percepisce, in un attimo, cosasta succedendo e comincia a fare segni disperati a quelli che arrivano. Alcuni capiscono e tornanosui loro passi; altri proseguono. Tra quelli che salgono vi è una interprete dei tedeschi che, nonappena giunta nella Sinagoga, denuncia la signora che viene immediatamente arrestata.Visto scoperto l’inganno, le SS conducono i prigionieri, in tutto una ventina, nel carcere di Marassi,dove il giorno seguente li raggiunge il Rabbino Riccardo Pacifici, arrestato nel luogo dove era datempo previsto un incontro con il custode. All’appuntamento si presentano, quel giorno, le SS chetrascinano il Rabbino tra le percosse in carcere.Nei giorni seguenti, sulla base degli elenchi estorti, vengono prese nelle loro case molte famiglie diebrei genovesi. Nelle settimane successive tocca agli ebrei abitanti o sfollati nelle due Riviere. Tuttisono rinchiusi nella prigione genovese da dove, caricati alle ore 23 del 1 dicembre su due vagonimerci direttamente sul piazzale del carcere, partono con destinazione Milano, S. Vittore.Il giorno 6 dicembre un trasporto ferroviario si incammina per destinazione ignota e, dopo una sostaa Verona per raccogliere gli ebrei provenienti da Firenze, arriva ad Auschwitz il giorno 11 dicembre.Non si è mai saputo quanti fossero su quel treno; si sa, però, che dopo la selezione furono immessinel campo 61 uomini e 35 donne.Dal momento della razzia nel Tempio per gli ebrei genovesi rimasti è una fuga disperata nellecampagne o sui monti intorno alla città.Molto spesso la solidarietà di un parroco, di un maresciallo dei carabinieri o della gente comune,che sa e tace, permette loro di salvarsi. Ma la caccia continua e molti vengono presi nei loronascondigli per imprudenze compiute o per delazioni prezzolate. Alcuni vengono arrestati ad unpasso dalla salvezza, al passaggio di quella frontiera svizzera che ormai rappresenta l’unico rifugiosicuro.Ancora un anno e mezzo di sofferenze ma la fine della guerra si avvicina. Il 24 aprile 1985 Genovaè liberata dia partigiani prima dell’arrivo delle truppe alleate. In quel giorno si cominciano adassaporare i primi momenti della ritrovata linertà dopo 20 anni di regime e lunghi mesi di terrore.La gente si incontra nelle strade, gli amici si ritrovano dopo tanto tempo, si vivono momenti distraordinaria u euforia collettiva che, malgrado i lutti e le rovine che la guerra ha lasciato,esprimono meglio di ogni altra cosa la speranza di poter costruire al più presto una società piùgiusta in un mondo migliore.Negli stessi giorni e nella stessa Sinagoga, che in qualche modo fa da filo conduttore a questo brevescritto, si aggirano, ancora non del tutto consapevoli di quanto era successo, alcuni iscritti nefrattempo usciti dai loro nascondigli alla vana ricerca di qualche segno, di qualche speranza, cheserva loro a mantenere viva la speranza .Si coltiva l’illusione che e notizie che cominciano a filtrare nons iano vere, ci si attacca a voci,brandelli di storie si aspetta con anzia il ritorno di tutti alle proprie case. È come non volere crederea quanto viene raccontato, è come cercare di convincere se stessi per convincere gli altri che poi,

alla fine, la tragedia si sarebbe rivelata meno grave. Nei giorni successivi iniziano a giungere, alaspicciolata, coloro che si sono salvati in varie parti d’Italia; accorrono per dire a qualcuno che sonoancora vivi, per cercare notizie dei loro cari che non hanno più trovato al ritorno. Quasi tutti, infatti,rientrati nelle loro case, le hanno trovate occupate da sconosciuti: alcuni si sono visti trattare allastregua di fantasmi, molti, addirittura, come intrusi da chi stava in quel momento affrontando glistessi problemi di sopravvivenza.Nella confusione generale delle nostre città, semidistrutte dai bombardamenti, dove iniziava aformarsi una parvenza di vita civile organizzata, la presenza di questi sopravvissuti faceva sorgeresentimenti contrastanti verso chi, per il solo fatto di essere tornato alla vita, sembrava volessevantare il diritto di stare sul gradino più alto di quella tragica scala che accomuna tutte le vittimedella guerra.Ma quando, anche a Genova, iniziarono a arrivare prima coloro che erano riusciti a rifugiarsi inSvizzera e poi, uno alla volta, i superstiti della deportazione, si misurò in tutta la sua enormità latragedia che aveva colpito un intero popolo e qui, nella nostra città, la sua piccola Comunitàebraica.238 ebrei genovesi, uomini, donne e bambini erano stati deportati. Più del 20% degli iscritti dellaComunità. Tornarono in 10.Ma la vita riprendeva e con la Liberazione anche gli ebrei genovesi tornarono alla libertà. Allalibertà di vivere, di credere, di pensare, di riprendere la scuola o il lavoro, di essere, insomma, dinuovo cittadini, uguali tra uguali, nella società democratica nata dalla Resistenza.Ma la Liberazione non li liberò dal ricordo che, giorno dopo giorno, si trasformava sempre di più inun incubo ricorrente. La Comunità si ricostituiva, affrontava faticosamente la ricostruzione, tuttapresa dai problemi del quotidiano, compiacendosi quasi che il “mondo di fuori” avesse elaboratoquella visione apologetica della Shoà che ne impediva a tutti, ebrei e non ebrei, una rielaborazionepiù profonda e interiorizzata.Il tempo passava. Quel tempo sufficiente, come scrive Marek Halter, per la nascita di duegenerazioni e per la scomparsa di molti testimoni; il tempo per le nuove atrocità di ricoprire gliorrori trascorsi.Il tempo della memoria di diventare storia. Il tempo per la storia di diventare sempre più asettica ela memoria sempre più dolorosa. Il tempo di andare alla ricerca nel passato della propria identità pertrovare in essa un rifugio non comodo e nemmeno accogliente ma alla lunga sicuro einequivocabile.Ma anche il tempo in cui questa ritrovata identità, in passato alla lunga sicuro e inequivocabile.Ma anche il tempo in cui questa ritrovata identità, in passato sofferta e tradita, spesso offesa,reclamasse partecipazione e offrisse a tutti la sua concezione etica della vita e quindi della politica,non ripiegandosi più in una sterile contemplazione del passato. Sono trascorsi 50 anni da quelgiorno; da non molto tempo e da quanto i fantasmi scomparsi sono sembrati risorgere, la Comunitàdi Genova ha iniziato, prima timidamente e poi sempre più decisamente, ad andare incontro almondo che la circonda, a rapportarsi alla Città, a offrire alla collettività più grande che lacomprende, il contributo che una identità diversa, tra le altre, può recare al vivere comune edemocratico.Quale Presidente della Comunità ebraica di Genova mi auguro che questo libro di testimonianze diebrei genovesi, giovani nel ‘43, alla cui realizzazione ha contribuito il Comitato Regionale per lecelebrazioni del 50 Anniversario della Liberazione non sia vissuto come fatto privato di alcuni neiconfronti di altri ma come fatto pubblico della Città, dei suoi abitanti, insomma di tutti, consapevoliche l’offesa subita e la libertà ritrovata sono patrimonio comune di ciascuno di noi.Piero dello StrologoPresidente della Comunità Ebraica di GenovaSeguono le copie anastatiche del libro che riguardano la testimonianza di Pupa dello Strologo.

Ciò convinse mio .

.paese non

.fuori una sigaretta e l’accese.potevamo entrare in Svizzera!Così cominciò la nostra vita di profughi. La prima tappa fu Bellinzona, con sosta nel lazzaretto. Latrafila dello spidocchiamento fu piuttosto traumatica così come dover accettare la separazionedegli uomini dalle donne. Mio fratello mia mamma ed io ci trovammo da soli.venne poi dato ilpermesso ai .

Seguono le altre sei testimonianze raccolte nel libro.

una signora, che abita nella piccola casa rossa all’inizio della salita, percepisce, in un attimo, cosa . a Verona per raccogliere gli ebrei provenienti da Firenze, arriva ad Auschwitz il giorno 11 dicembre. Non si è mai saputo quanti fossero su quel tre

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